Amato e odiato per le sue posizioni estreme e per la implacabile critica al modello consumistico divenuto dominante con il boom degli anni ΄60, Pier Paolo Pasolini ha ispirato il proprio cinema a questa radicale contestazione rivolta alla società italiana che costituisce anche una delle principali chiavi di lettura della sua produzione letteraria e poetica oltre che giornalistica.
Nei suoi film si individua infatti un filo rosso rappresentato dall’utopica volontà di difendere con accanimento i valori appartenenti ad una realtà originaria, popolare, arcaica, anti industriale e anticonsumistica, oramai quasi scomparsa dall’Occidente e le cui flebili tracce rinviene nei paesi del terzo mondo, depositari di una cultura positivamente tradizionale oltre che nel sottoproletariato urbano delle città, Roma in primis.
Il suo sarà uno sforzo appassionato, estremamente polemico in questa direzione diretta ad esaltare un passato in qualche modo decisamente anti moderno, che lui trasforma in una prospettiva mitica, salvo riconoscerne il carattere fallace ed illusorio verso la fine della propria vita. Quasi tutta la sua produzione è ispirata da un’intenzione combattiva indirizzata alla difesa ad oltranza di un’umanità popolare alternativa rispetto alla contemporaneità. Si tratta di uno sforzo a tutto campo il suo, praticato inizialmente attraverso lo strumento della letteratura dalla quale in seguito si discosta poiché non sufficientemente efficace, per abbracciare invece il cinema, ritenuto un mezzo più efficace per arrivare alle masse. Il concetto essenziale che deve essere tenuto a mente per comprendere il cinema di Pasolini (ma in realtà anche una buona parte del suo lavoro intellettuale) è quello dell’omologazione culturale e della mutazione antropologica che ha ormai travolto e trasfigurato la società italiana. L’industrializzazione tumultuosa degli anni Sessanta ha prodotto una mutazione antropologica negli italiani, creando una forma di omologazione totalizzante, completamente appiattita sul consumismo e sull’edonismo materialistico.
Con il suo stile apertamente apocalittico, Pier Paolo Pasolini (P.P.P.) parla addirittura di un genocidio culturale che ha cancellato le culture regionali, le singole differenze linguistiche e dialettali che avevano sempre contraddistinto il paese, annullato gli stili di vita che, fino ad allora, avevano distinto il borghese dal proletario, il ricco dal povero, il fascista dall’antifascista. Artefice principale di questo livellamento che cancella ogni differenza di classe sociale per ricondurre tutti all’unico modello dominante che è quello borghese, sono gli strumenti di comunicazione di massa, soprattutto la televisione.
“I giovani sottoproletari romani-scrive nelle Lettere luterane -hanno perduto la loro cultura, cioè il loro modo di comportarsi, di parlare, di giudicare la realtà, sono stati distrutti e borghesizzati. La loro connotazione classista è dunque ora puramente economica e non più anche culturale”.
A metà anni Settanta, fecero clamore le posizioni che P.P..P.assunse contro la televisione e contro la scuola dell’obbligo; di entrambe invocò l’abolizione temporanea, sollecitandone in realtà una radicale riforma.
Una posizione che ribadì la sua dimensione pubblica di grande provocatore, ma che trovava la propria ragion d’essere nel considerare proprio la televisione e la scuola media due strumenti straordinariamente potenti in quel processo di omologazione destinato a coprire in maniera irreversibile, come uno strato di cemento, ogni culturale particolare, tagliando ogni ponte con il passato, per consolidare l’ormai trionfante potere consumistico e dar vita, come unico modello umano concepibile, a quello del “borghese, questo uomo medio che è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista” (“La ricotta”). Non è un caso che il suo esordio poetico avvenne, da ventenne, con Poesie a Casarsa, raccolta di versi in dialetto friuliano.
Nel dialetto si sintetizza infatti quella cultura particolare, localistica, rurale, regionale, la parlata degli artigiani e dei contadini, ormai da considerare alla stregua di un reperto del passato, ma espressione di una purezza originaria e incontaminata.
La dittatura della nuova cultura consumistica diventa una forma di fascismo ancora più pervasiva ed efficace del fascismo storico, in un continuo processo di degradazione. La profonda avversione per la realtà dei suoi anni lo porta a riproporre il passato attraverso film che si oppongono dunque alla cultura di massa e ai suoi disvalori. Da regista, Pasolini mette in scena un’umanità periferica, le cui storie si svolgono lontane dal Centro, inteso come cuore pulsante di un mondo occidentale ricco e trasfigurato dall’ideologia dominante e si dipanano sui volti innocenti e ingenui dei “ragazzi di vita”, periferici e marginali per eccellenza.
Pasolini torna al mito greco, con i rifacimenti di tre tragedie elleniche: i capolavori di Sofocle, Euripide ed Eschilo, divenuti Edipo Re nel 1967, Medea nel 1969 e Appunti per un’Orestiade africana nel 1970, tratto dall’Orestea di Eschilo, film degli ultimi anni ΄60 e dei primi anni ΄70.
Successivamente approda ad un Medioevo tardo-trecentesco con la rielaborazione delle novelle di Giovanni Boccaccio, Geoffrey Chaucer e dei vari autori delle esotiche storie orientali riunite nella raccolta di Le mille e una notte. Le loro trasposizioni in chiave contemporanea che il regista ci offre sono il Decameron del 1971, I Racconti di Canterbury del 1972 e, appunto, il Fiore delle mille e una notte del 1974. Per comprendere i motivi che fecero di P.P.P. il più nostalgico ed energico cantore di un ritorno all’antico faremo comunque un piccolo excursus nella sua biografia perché se è vero che alcuni aspetti “scandalosi” della sua vita sono ampiamente conosciuti, ci sono pur sempre altri aspetti esistenziali impossibili da ignorare. E’ proprio dalla sua condizione di “emarginato” che trae origine l’ ostinata ricerca di un mondo ancora non violato nella sua arcaica sacralità. Analizzeremo i tre film di ambientazione “barbarica” in una Grecia mitologica; Edipo Re, Medea e gli Appunti. Attraverso la regione della Colchide riprodotta nelle rovine della Cappadocia, lontane da ogni tempo per la loro bellezza sacrale, grazie alle nenie folkloristiche di civiltà profondamente religiose e le interminabili riprese, le interviste, i cortometraggi-documentari delle popolazioni asiatiche e africane legate ad una terra «dalla pace preistorica, una dolcezza quasi elegiaca» , il regista incontra il mondo antico che diventa il suo confortevole rifugio.
Le tre pellicole ripropongono il rapporto conflittuale tra la società popolare dell’oriente verso il quale vanno le sue sincere simpatie e la realtà occidentale che ripudia.
La Trilogia della Vita rappresenta infine, la tematica analizzata nell’ultima parte del libro. Pasolini sceglie dei contesti narrativi apparentemente meno impegnati. Il Decameron, i Racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, sortiscono l’effetto di quadri viventi straripanti di colori e suoni, in cui regnano l’allegria e la spensieratezza. La vitalità e la spontaneità di un universo schiettamente popolare sono riscontrabili anche nell’esposizione del nudo. La sessualità è una genuina ed autentica manifestazione dell’attrazione di corpi, espressione di candore perché non ancora contaminati dalla violenta modernità. La libertà degli istinti è inevitabilmente destinata a suscitare la riprovazione moralistica di parte dell’opinione pubblica che gli scaglia contro una reazione rabbiosa e violenta.
Sullo sfondo di questa produzione cinematografica, si stagliano le vicende private dell’autore. Si tratta di questioni ben note per essere richiamate con ampiezza in questa trattazione, ma dalle quali non si può tuttavia prescindere per meglio afferrare il suo impegno artistico e civile.
Malgrado le aggressioni subite, le censure ai suoi film, le critiche feroci, a più di quarant’anni dalla sua morte, la voce di P.P.P. riecheggia come fosse quella di uno straordinario osservatore del nostro tempo, tanto profetiche si sono rivelate le sue parole. L’indignazione probabilmente lo trafiggerebbe ancora poiché uno sviluppo senza progresso ha avuto la meglio sulle trepidanti speranze della generazione sopravvissuta alla seconda guerra mondiale; ciò che rimane di incorrotto e sincero lo troviamo, fortunatamente, nella produzione poetica che ci ha lasciato.
A questo conflitto, finora poco indagato dalla storiografia, è oggetto del volume “Le Falkland, la guerra di Margaret Thatcher” di Roberto Semprebene, edito da Intermedia Edizioni. La guerra delle Falkland ha evidenziato l’emergere di una serie di controversie che non erano legate al contrasto est-ovest e che non si sarebbero potute risolvere secondo la logica del confronto tra i due blocchi, in un’anticipazione di quella che sarebbe diventato il tema principale delle relazioni internazionali: il rapporto tra paesi del nord e del sud del mondo.
Ma per quale motivo l’Argentina decisa di invadere quelle isole? Al centro di questa che sembrava in realtà una decisione non molto azzardata dal punto di vista chi la mise in atto ci furono le grandi difficoltà che stava vivendo alla vigilia dle conflitto la Giunta militare argentina, al potere nel paese. Innanzitutto si trattava di fronteggiare il diffuso malcontento per le condizioni socio-economiche in cui si trovava il paese e soprattutto gli strati meno ricchi della popolazione, alle prese con inflazione galoppante e una guerriglia di tipo politico sempre più diffusa. Il regime militare che restò al potere dal 1976 al 1983 dopo aver destituito Isabellita Peron, ultima moglie di Juan Domingo Peron, aveva infatti una pressante esigenza di creare un diversivo e cercare una strada per conquistare il consenso. L’opinione diffusa nei vertici militare era dunque quella di ritenere che l’Inghilterra non avrebbe impegnato le proprie forze armate per difendere quelle sperdute isolette dove vivevano appena 1800 abitanti. Il premier inglese Margaret Tatcher vide però nell’aggressione argentina alle Falkland il pretesto per innalzare la bandiera dell’orgoglio nazionale, mortificato dalla fine dell’impero nel dopoguerra oltre che umiliato dalla crisi di Suez del 1956. Anche il governo inglese aveva bisogno di un bagno di consenso in un periodo in cui le riforme all’insegna del liberismo e dello smantellamento dello stato sociale che sarebbero divenute il marchio di fabbrica della Tatcher non avevano prodotto risultati economici, ma al contrario, causato malcontento e proteste. Nello stesso modo, il contesto geopolitico internazionale era tale da non poter restare inerme di fronte ad una iniziativa militare e politica quale quella della Giunta argentina. Dal punto di vista statunitense, l’invasione delle Falkland metteva in serio pericolo l’intero sistema latinoamericano che storicamente era la zona di maggiore influenza della superpotenza occidentale. Gli Stati della regione erano per la grande maggioranza coinvolti in situazioni assimilabili a quella argentina rispetto alle Malvine e alcuni di essi avevano ripetutamente minacciato di ricorrere alla forza per risolverle. Una legittimazione dell’impresa argentina o anche solo una mancata presa di posizione contro di essa sarebbe divenuta un pericoloso precedente: molti altri stati avrebbero tentato di risolvere le proprie controversie territoriali ricorrendo alle armi, ponendo il continente in una condizione di grande instabilità generale e Washington avrebbe corso il serio rischio di perdere il controllo sulla regione.