Il passare del tempo sullo sfondo delle stagioni, la dimensione lirica della poetessa di Alessandria.

Scrivere in versi non è semplice, anche se può parere l’atto più istintivo e immediato. Non c’è solo l’espressione del cosiddetto “flusso di coscienza”, tipica di tanto Novecento, da Svevo, Joyce e Virginia Woolf in poi. C’è anche la codificata e rigorosa tradizione, coltivata dai poeti novecenteschi
apparentemente più “liberi” dal peso della forma che l’antichissima cultura greca ci ha trasmesso. Nei versi di Barbara Rossi si ritrovano queste due opposte tendenze, pur nella scioltezza e nella libertà di accostamenti sintattici e fonetici. Il comune denominatore di questa raccolta, che comprende i primissimi esperimenti poetici, nella giovinezza, e le prove più recenti, dell’età adulta (1989-2009), è il passare del tempo sullo sfondo delle stagioni: che non costituiscono soltanto un muto e immobile fondale su cui proiettare emozioni e pensieri. Si rivelano, invece, nel trascorrere dei giorni e delle esperienze di vita, la trama principale, l’essenza stessa della voce poetica. Le case, le stanze, i giardini, insieme ai corpi e ai volti, alle affettuose presenze che li hanno abitati, diventano, così, l’orditura di una stoffa spesso diseguale, con molti squarci lasciati aperti sul mondo, sui ripostigli della memoria, sull’amore, sulla fantasia che è desiderio di fuga, tensione per l’Altrove, ansia creatrice di mondi nuovi.
In fondo, come scrive Lou Andreas-Salomé ne Il mio ringraziamento a Freud, 1931: “La vita umana, o meglio la vita in generale, è poesia. Senza esserne consapevoli noi la viviamo, giorno dopo giorno, pezzetto dopo pezzetto, ma nella sua intangibile interezza, essa ci vive e poeta in noi

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