Lo stile architettonico medievale che possiamo ammirare in molte città e monumenti europei ha nulla o pochissimo a che vedere con la vera immagine che quelle città e monumenti possedevano in epoca medievale. Si tratta infatti di una rivisitazione idealizzata e fantasiosa, elaborata in pieno Ottocento, nel contesto di una tendenza culturale incentrata sulla reinvenzione di un Medioevo gotico, immaginifico, astratto e irreale che ha però finito per occupare tutto il nostro immaginario iconografico riferito a quel lungo periodo storico a cui tanti caratteri simbolici sono stati attribuiti in epoca moderna. Il padre di questa “invenzione” fu Eugene Viollet le Duc (1814-1879), il grande architetto francese passato alla storia per aver compiuto il restauro e la trasformazione della cattedrale di Notre Dame di Parigi che era stata semidistrutta nel corso della Rivoluzione del 1789 e la cui neccessità di restauro era stata sollecitata con straordinaria forza persuasiva da Victor Hugo che lanciò una crociata per salvare dal degrado alcuni tra i più importanti monumenti di Francia. Le Duc aveva già ottenuto grande fame per la radicale ristrutturazione di Carcassone le cui mura edificò ex novo facendo ampio ricorso alla fantasia. Il suo intervento si concentrò soprattutto sulla cinta difensiva e sulle fortificazioni militari della città che abbellì con merlature all’epoca inesistenti e torrette dai caratteristici tetti a punta ricoperti di ardesia, in realtà mai impiegata in quella zona. La sua opera più famosa, Notre Dame, la rielaborò in alcuni tratti di sana pianta secondo lo stile neogotico che amava particolarmente. Sopra al transetto, ad esempio, realizzò un rosone e una finestra che non esistevano affatto nel progetto originario, demolì tutte le parti della chiesa che erano state realizzate successivamente all’epoca gotica, soprattutto nel periodo barocco e neoclassico. Un metodo che aveva sintetizzato così:” Restaurare un edificio non significa salvaguardalo, ripararlo o ricostruirlo, ma ripristinarlo in uno stato di compiutezza che potrebbe non essere mai esistito”. Questa tendenza altamente “creativa” dell’architettura che incontrava comunque in patria anche numerosi ed agguerriti detrattori, divenne una moda di successo anche in quelle città italiane di origine medievale come Orvieto in cui la necessità di procedere ad importanti restauri di edifici pubblici si sommava all’ansia di rinnovamento urbano espresso dalle nuove classi dirigenti liberali post unitarie intente ad  affermare anche nell’architettura uno stile innovativo e moderno rispetto alla stagnazione decadente del precedente periodo papalino. Come ricostruisce l’ottimo Alberto Satolli, si inseriscono in questo contesto i restauri orvietani del palazzo del Capitano del popolo e di palazzo Soliano che portano la firma dell’architetto Paolo Zampi, architetto anche dell’Opera del duomo e “dominus” incontrastato per un trentennio di tutti i lavori pubblici cittadini nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Satolli ci ricorda che Zampi “Senza remore fece scomparire in duomo un ciclo di affreschi manieristi di importanza storica eccezionale in nome del purismo neogotico” a dimostrazione di come questa dimensione creativa ne comportasse però anche una distruttiva. Tra le varie innovazioni apportate da Zampi al Palazzo del popolo, in cui in epoca fascista si tentò anche di installare una lapide in occasione della fondazione dell’impero con una frase del duce, ci fu la realizzazione delle merlature, tipico elemento neogotico ed ancora oggi riferimento immancabilmente ricorrente in ogni castello o edificio medievale che abbia cittadinanza nell’immaginario diffuso. Zampi apportò grandi cambiamenti anche a palazzo Soliano che venne innalzato rispetto all’altezza originaria, arricchendolo anch’esso di merlature, frutto di fantasia.

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