I quattro interventi urbanistici che hanno creato la città di oggi sullo sfondo di interessi economici mai chiariti.
“Prima siamo noi a dare forma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi” diceva Winston Churchill, a sottolineare la profonda importanza che ricopre l’urbanistica nel plasmare la nostra visione e percezione della realtà oltre a “regolare” la nostra vita sociale. C’è stato un lungo periodo in cui l’urbanistica ha rappresentato il cuore della vita pubblica italiana ed è stata capace di suscitare coinvolgimenti profondi nelle comunità locali, prima di trasformarsi in una pratica piuttosto asettica e relegata ad una questione tecnica nel disinteresse dei cittadini, anche di quelli più attenti e consapevoli.
Lo sviluppo innescato dalla rinascita del Paese nel dopoguerra, il successivo dinamismo impresso dal boom negli anni Sessanta, il fenomeno dell’inurbamento e dello spopolamento delle campagne parallelo alla fine della mezzadria e i conflitti ideologici su come dovesse essere l’Italia del futuro rappresentarono elementi irripetibili di quella intensa e lunga stagione e anche una larga parte della Orvieto di oggi venne plasmata in quegli anni. Paolo Borrello ce ne offre uno spaccato nel suo “I piani regolatori del Comune di Orvieto”, Intermedia Edizioni, un testo fondamentale per chi si occupa a vari livelli di questa città e sia intenzionato a capirne certe dinamiche che oggi sembrano a volte incomprensibili.
I piani urbanistici, o regolatori analizzati sono quattro: il piano Bonelli, il piano Piccinato, la variante Satolli, realizzata con la consulenza del professor Benevolo e il piano Rossi Doria. Tra i tanti spunti interessanti, occupa sicuramente un posto importante la figura di Luigi Piccinato il cui piano del 1966 previde la nascita e lo sviluppo di Ciconia. Piccinato era già allora un architetto ed urbanista di chiara fama. Insieme a Bruno Zevi, Mario Ridolfi e Pier Luigi Nervi aveva dato vita all'”Associazione per l’architettura organica” che si proponeva di promuovere uno stile architettonico conforme ed ispirato a quello di Frank Lloyd Wright (quello della famosa casa sulla cascata, per intenderci), il grande progettista che aveva dedicato la propria vita professionale alla creazione dello stile architettonico “americano”, ovvero un superamento delle influenze europee per un nuovo modello di edifici ispirati dal rapporto con la natura.
Piccinato si approcciò ad Orvieto con una influenza professionale destinata ad avere un notevole peso, ovvero la realizzazione del piano regolatore di Bergamo a cui aveva contribuito in maniera decisiva. L’idea di una città alta e di una bassa sul modello di Bergamo fu un motivo ispiratore che si trova nel suo Prg, anche se “Il criterio di una completa duplicazione come avvenne a Bergamo non poteva essere qui recepito”. Ciononostante, l’idea di Ciconia nasce da questa base, anche come superamento del precedente piano di Renato Bonelli che aveva individuato in Orvieto scalo il polo del futuro sviluppo residenziale, ma Bonelli (il quale auspicava anche un drastico ridimensionamento delle presenze militari in città) era caduto in disgrazia nel rapporto con tutto il mondo politico orvietano tanto che il Consiglio comunale non aveva alla fine approvato il suo piano.
Piccinato si muove nel contesto di una proiezione demografica che poi si rivelerà del tutto illusoria, cioè quella che Orvieto sarebbe arrivata a 35 mila abitanti nel 1990, partendo dai 24 mila del 1965. Lo sbocco residenziale al di là del Paglia venne individuato anche come forma di tutela della zona della Gabelletta e del Tamburino in cui già avevano cominciato a sorgere varie abitazioni. Lo stesso piano previde la realizzazione di una area industriale a Bardano e una a Pian del Vantaggio in relazione alla inaugurazione dell’autostrada avvenuta nel 64. Un tema che colpisce è anche il modo con cui vennero trattate e liquidate alcune questioni nella progettazione urbanistica e nella pianificazione del territorio che poi si sarebbero rivelate profondamente sbagliate e fonti di problemi, decise in quegli anni cruciali. Una è quella relativa alla realizzazione del casello autostradale a grande distanza dall’area produttiva con tutti i problemi che ne sono derivati e l’altra è quella relativa al rischio idrogeologico che grava su Ciconia.
La prima questione venne affrontata dai socialisti sostenendo che non sarebbero sorto in realtà alcun problema a causa della distanza tra casello e Bardano mentre il sindaco Italo Torroni sostenne che l’area industriale non dovesse essere realizzata vicino al casello perchè nella zona esisteva il serio rischio di alluvione. Una affermazione che lascia intendere come fossero già ben chiari all’epoca i rischi naturali di quell’area. Per quale motivo non se ne tenne conto e si diede, al contrario, il via alla cementificazione di tutta quell’area? Il lavoro di Borrello sfiora infatti un tema che non è mai stato realmente sviscerato che è quello degli interessi economici collegati alla scelta di far sviluppare la città nuova sui terreni oltre il Paglia. Certe ombre aleggiano anche sulla posizione della DC che prima si battè strenuamente affinchè la zona di nuova espansione edilizia si sviluppasse lungo la direttrice delll’Umbro Casentinese, in direzione di Viterbo piuttosto che verso l’area svantaggiata di Ciconia mentre poi, improvvisamente, i democristiani fecero cadere l’argomento e si accodarono docilmente alle posizioni espresse dalla maggioranza Pci-Psi.
I temi trattati sono molti altri e tutti interessanti. Sullo sfondo rimane la considerazione finale di Borrello relativa al fatto che ormai quasi nessuno ad Orvieto si interessa e discute di scelte urbanistiche come se la città non avesse più voglia di pensare al proprio futuro. Dimenticando la profonda verità delle parole di Churchill che non hanno certo perso il proprio valore.
A questo conflitto, finora poco indagato dalla storiografia, è oggetto del volume “Le Falkland, la guerra di Margaret Thatcher” di Roberto Semprebene, edito da Intermedia Edizioni. La guerra delle Falkland ha evidenziato l’emergere di una serie di controversie che non erano legate al contrasto est-ovest e che non si sarebbero potute risolvere secondo la logica del confronto tra i due blocchi, in un’anticipazione di quella che sarebbe diventato il tema principale delle relazioni internazionali: il rapporto tra paesi del nord e del sud del mondo.
Ma per quale motivo l’Argentina decisa di invadere quelle isole? Al centro di questa che sembrava in realtà una decisione non molto azzardata dal punto di vista chi la mise in atto ci furono le grandi difficoltà che stava vivendo alla vigilia dle conflitto la Giunta militare argentina, al potere nel paese. Innanzitutto si trattava di fronteggiare il diffuso malcontento per le condizioni socio-economiche in cui si trovava il paese e soprattutto gli strati meno ricchi della popolazione, alle prese con inflazione galoppante e una guerriglia di tipo politico sempre più diffusa. Il regime militare che restò al potere dal 1976 al 1983 dopo aver destituito Isabellita Peron, ultima moglie di Juan Domingo Peron, aveva infatti una pressante esigenza di creare un diversivo e cercare una strada per conquistare il consenso. L’opinione diffusa nei vertici militare era dunque quella di ritenere che l’Inghilterra non avrebbe impegnato le proprie forze armate per difendere quelle sperdute isolette dove vivevano appena 1800 abitanti. Il premier inglese Margaret Tatcher vide però nell’aggressione argentina alle Falkland il pretesto per innalzare la bandiera dell’orgoglio nazionale, mortificato dalla fine dell’impero nel dopoguerra oltre che umiliato dalla crisi di Suez del 1956. Anche il governo inglese aveva bisogno di un bagno di consenso in un periodo in cui le riforme all’insegna del liberismo e dello smantellamento dello stato sociale che sarebbero divenute il marchio di fabbrica della Tatcher non avevano prodotto risultati economici, ma al contrario, causato malcontento e proteste. Nello stesso modo, il contesto geopolitico internazionale era tale da non poter restare inerme di fronte ad una iniziativa militare e politica quale quella della Giunta argentina. Dal punto di vista statunitense, l’invasione delle Falkland metteva in serio pericolo l’intero sistema latinoamericano che storicamente era la zona di maggiore influenza della superpotenza occidentale. Gli Stati della regione erano per la grande maggioranza coinvolti in situazioni assimilabili a quella argentina rispetto alle Malvine e alcuni di essi avevano ripetutamente minacciato di ricorrere alla forza per risolverle. Una legittimazione dell’impresa argentina o anche solo una mancata presa di posizione contro di essa sarebbe divenuta un pericoloso precedente: molti altri stati avrebbero tentato di risolvere le proprie controversie territoriali ricorrendo alle armi, ponendo il continente in una condizione di grande instabilità generale e Washington avrebbe corso il serio rischio di perdere il controllo sulla regione.