Odiamo certi carnefici per quello che rappresentano e non solo per quello che fanno

Il tribunale di secondo grado ha dunque ridotto la pena a carico dei fratelli Bianchi, responsabili dell’omicidio di Willy Duarte; dall’ergastolo del primo grado ai 24 anni dell’Appello. In attesa del responso della Cassazione, questa tragica e brutale vicenda riecheggia per molti aspetti il famigerato massacro del Circeo del 1975 quando due ragazze di borgata vennero sequestrate, aggredite, torturate e violentate da una banda di tre giovani della Roma bene, “pariolini e fascisti”, guidati da Angelo Izzo che uccisero una delle due, Rosaria Lopez. Una similitudine collegata non solo all’orrore che suscita il gesto violento in sè, ma soprattutto alla repulsione e all’odio che sono capaci di stimolare i carnefici per i disvalori che incarnano, per ciò che rappresentano simbolicamente e concretamente, ma anche esteticamente.

Il massacro del Circeo ebbe una risonanza enorme ed altrettanto avvenne con il processo svolto a Latina contro quei criminali che ancora oggi costituisce uno spaccato illuminante e agghiacciante della sottocultura maschilista e prevaricatrice  nell’Italia dell’epoca. L’episodio del Circeo suscitò grande eco nella sinistra anche per la lettura che ne diede Pier Paolo Pasolini secondo il quale il riverbero “politico” di quel fattaccio aveva preso in realtà immediatamente il sopravvento rispetto all’episodio in sè ed il fatto che se ne potesse dare una interpretazione politica, integralmente conforme e coerente alle coordinate ideologiche della sinistra, rappresentava in fondo il vero motivo di quella eco che aveva fatto enorme scalpore anche oltre la violenza compiuta. I tre massacratori del Circeo incarnavano infatti l’archetipo di ciò  che a sinistra veniva combattuto ed odiato: l’estrazione borghese e “pariolina” dei tre delinquenti, la loro dichiarata fede fascista. Se non fossero stati fasci e figli di papà, si sarebbe trattato solo un delitto orrendo come tanti altri; questo suggeriva lo scrittore. Pasolini lo disse con queste parole, mettendo a confronto i fatti del Circeo con un altro efferato omicidio avvenuto negli stessi giorni a Tor Pignattara, ma rimasto non a caso relegato nelle cronache cittadine: “Il lettore confronti personaggi come i pariolini neo-fascisti che hanno compiuto l’orrendo massacro in una villa del Circeo e personaggi come i borgatari di Tor Pignattara che hanno ucciso un automobilista spaccandogli la testa sull’asfalto: a due livelli sociali diversi, tali personaggi sono identici: ma “i modelli” sono i primi, quei figli di papà, che così a lungo – per secoli – sono stati sfottuti e disprezzati dai ragazzi di borgata, che li consideravano nulli e pietosi. Mentre erano fieri di ciò che essi stessi erano: della loro “cultura”, che dava loro gesti, mimica, parole, comportamento, sapere, termini di giudizio”.

Parole che suscitarono enorme  scandalo nel mondo intellettuale comunista. Pasolini venne attaccato ferocemente da Italo Calvino, Alberto Moravia, Dacia Maraini ed altri. Disse Moravia, confutando con un certo livore la posizione di Pasolini:”Il delitto del Circeo è un delitto sadico. È sadico perché è un delitto di classe, cioè il delitto di chi detiene il potere ai danni di chi non ha il potere. Rosaria Lopez è stata uccisa soprattutto perché era una borgatara. D’altra parte, il delitto del Circeo è un delitto di gente repressa”. Insomma, alcuni assassini diventano “mostri” in maniera inevitabile, non tanto per le mostruosità di cui si macchiano, ma per quello che rappresentano. Nel nostro modo di vedere la realtà agiscono infatti pregiudizi ineliminabili che ci rendono qualcuno più detestabile e colpevole di un altro e le cui gesta delinquenziali ci colpiscono con maggiore profondità. Nel caso del Circeo, i tre “pariolini” per il loro essere pariolini, ricchi e e neofascisti, nel caso dei due fratelli Bianchi per incarnare l’archetipo del bullo di provincia, del cafone arrogante e violento, tatuato, abbronzato, palestrato, esibizionista. Forse Pier Paolo Pasolini avrebbe detto questo, che occorre saper valutare la gravità della violenza commessa indipendentemente da chi ne è autore. Oggi come allora sarebbe stato sommerso dalle critiche perchè odiare i fratelli Bianchi è quasi inevitabile, significa odiare quello che incarnano socialmente e antropologicamente almeno quanto quello che hanno fatto al povero Willy.

A questo conflitto, finora poco indagato dalla storiografia, è oggetto del volume “Le Falkland, la guerra di Margaret Thatcher” di Roberto Semprebene, edito da Intermedia Edizioni.  La guerra delle Falkland ha evidenziato l’emergere di una serie di controversie che non erano legate al contrasto est-ovest e che non si sarebbero potute risolvere secondo la logica del confronto tra i due blocchi, in un’anticipazione di quella che sarebbe diventato il tema principale delle relazioni internazionali: il rapporto tra paesi del nord e del sud del mondo.

Ma per quale motivo l’Argentina decisa di invadere quelle isole? Al centro di questa che sembrava in realtà una decisione non molto azzardata dal punto di vista chi la mise in atto ci furono le grandi difficoltà che stava vivendo alla vigilia dle conflitto la Giunta militare argentina, al potere nel paese. Innanzitutto si trattava di fronteggiare il diffuso malcontento per le condizioni socio-economiche in cui si trovava il paese e soprattutto gli strati meno ricchi della popolazione, alle prese con inflazione galoppante e una guerriglia di tipo politico sempre più diffusa. Il regime militare che restò al potere dal 1976 al 1983 dopo aver destituito Isabellita Peron, ultima moglie di Juan Domingo Peron, aveva infatti una pressante esigenza di creare un diversivo e cercare una strada per conquistare il consenso. L’opinione diffusa nei vertici militare era dunque quella di ritenere che l’Inghilterra non avrebbe impegnato le proprie forze armate per difendere quelle sperdute isolette dove vivevano appena 1800 abitanti. Il premier inglese Margaret Tatcher vide però nell’aggressione argentina alle Falkland il pretesto per innalzare la bandiera dell’orgoglio nazionale, mortificato dalla fine dell’impero nel dopoguerra oltre che umiliato dalla crisi di Suez del 1956.  Anche il governo inglese aveva bisogno di un bagno di consenso in un periodo in cui le riforme all’insegna del liberismo e dello smantellamento dello stato sociale che sarebbero divenute il marchio di fabbrica della Tatcher non avevano prodotto risultati economici, ma al contrario, causato malcontento e proteste. Nello stesso modo, il contesto geopolitico internazionale era tale da non poter restare inerme di fronte ad una iniziativa militare e politica quale quella della Giunta argentina.  Dal punto di vista statunitense, l’invasione delle Falkland metteva in serio pericolo l’intero sistema latinoamericano che storicamente era la zona di maggiore influenza della superpotenza occidentale. Gli Stati della regione erano per la grande maggioranza coinvolti in situazioni assimilabili a quella argentina rispetto alle Malvine e alcuni di essi avevano ripetutamente minacciato di ricorrere alla forza per risolverle. Una legittimazione dell’impresa argentina o anche solo una mancata presa di posizione contro di essa sarebbe divenuta un pericoloso precedente: molti altri stati avrebbero tentato di risolvere le proprie controversie territoriali ricorrendo alle armi, ponendo il continente in una condizione di grande instabilità generale e Washington avrebbe corso il serio rischio di perdere il controllo sulla regione.

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